SCHEDA DEL FILM:

Titolo: La Mossa del Cavallo – C’era una volta Vigata

Anno: 2018

Genere: Poliziesco, Storico

Durata: 109 minuti

Regia: Gianluca Maria Tavarelli

Sceneggiatura: Andrea Camilleri, Francesco Bruni, Leonardo Marini, Valentina Alfej

Cast: Michele Riondino, Maurizio Puglisi, Maurizio Bologna, Antonio Pandolfo, Ester Pantano, Filippo Luna, Cocò Gulotta, Angelo Libri, Giancarlo Ratti, Giuseppe Lanino, Roberto Salemi.

TRAMA:

“Giovanni Bovara, originario di Vigata, torna in Sicilia in qualità di ispettore per indagare sulla corretta applicazione della tassa sul macinato, allora nota come tassa sul pane. Durante le indagini all’ispettore vine offerto più volte il premio per il suo silenzio. Di fronte a simili offerte, però, Giovanni Bovara si dimostra incorrutibile e determinato nella sua missione. Un giorno, di ritorno da un’ispezione, il giovane ispettore assiste all’assassinio di un prete. La vittima, in punto di morte, rivela l’identità degli assassini. Bovara, terrorizzato, non sa a chi chiedere aiuto e in breve diventa un personaggio scomodo. Diffondendosi la notizia, i veri assassini fanno cadere la colpa sul testimone. Solo grazie alla Mossa del Cavallo, Giovanni Bovara riuscirà a togliersi dai guai. Per l’ispettore la mossa migliore per ottenere la sua salvezza è imparare il siciliano”.

ANALISI DEI PERSONAGGI:

Il protagonista è Giovanni Bovara, interpretato da Michele Riondino, un giovane nato a Vigata ma crescuto a Genova. L’uomo torna in Sicilia, questa volta a Montelusa. Ritrovando nella terra natia ricordi ed emozioni che la madre era solita raccontagli, Giovanni è subito affascinato dalla Sicilia e dal dialetto. Bovara arriva a Montelusa in qualità di ispettore ai mulini ma non ha idea degli equilibri di potere che la corruzione ha creato nel paese. Fatica infatti da cosa o da chi dipenda il potere nell’isola. Ma Bovara dà segno di forza e coraggio e non abbassa lo sguardo di fronte alla prepotenza dei più forti.

Tristina Cicero (Ester Pantano) è una giovane donna vedova. Dietro l’abito nero si cela una donna libertina e furba. La donna era solita tradire il marito da sposata, rimasta vedova onorava il lutto concedendosi al prete di Montelusa in cambio di beni materiali. Ma Tristina è anche proprietaria della villetta affittata dal giovane Bovara. I due di conoscono mentre l’ispettore a torso nudo cavalca per la prima volta il suo nuovo destriero. Tristina, guardando la scena dalla carrozza, si infatua di Giovanni e da subito sfodera le sue tecniche di seduzione per attirarlo a sé.

Padre Carnazza è il prete di Montelusa, interpretato da Antonio Pandolfo, è un uomo avido, libertino, attaccato ai piaceri terreni. Il prete, invaghito di Tristina, è in continuo contrasto con il cugino Memè Moro (Maurizio Bologna) nient’altro che un furfante nullafacente. I due sono in continua lotta per l’eredità di famiglia, ma Carnazza è sul punto di mettere sul lastrico il cugino che ormai è pieno d’odio. I due personaggi vengono presentati in maniera leggera, dando al film quel tocco di disperazione comica che forse eccede in determinate scene.

Ma il vero burattinaio di Montelusa è Don Cocò Afflitto, interpretato da Maurizio Puglisi. L’uomo è il capo assoluto della mafia di Montelusa. Don Cocò non è mai ripreso in volto e di lui si parla molto ma sempre sottovoce e con riverenza. Il fatto che le uniche immagini dell’uomo siano di spalle conferisce al personaggio un alone di mistero e di minaccia. Avido di potere e privo di scrupoli, Don Cocò decide di schiacchiare Giovanni Bovara, l’unico che non trema al solo sentire il suo nome. Le grinfie di Don Cocò si estendono per tutto il paese di Montelusa. Come le erbacce, l’uomo soffoca tutto il paese.

Ai piedi del capo della mafia montelusana c’è l’avvocato Fasulo (Filippo Luna). L’avvocato è la pedina principale di Don Cocò. Fasulo, presentandosi come un uomo corretto e dall’alta moralità, è in realta un uomo viscido che esegue tutti gli ordini del suo capo. Si direbbe che Fasulo sia una trasposizione dell’Azzeccagarbugli manzoniano: un uomo corrotto, ipocrita, che usa un linuaggio persuasivo, abituato a servire il potente di turno e disposto a sottomersi pur di essere protetto.

Altro personaggio asservito al potere di Don Cocò è Spampinato, un delegato di polizia rozzo, intepretato da Cocò Gulotta.

A completare l’entourage di complici e servi del tiranno di Montelusa c’è il vice di Spampinato, La Mantìa (Angelo Libri). Sarà proprio lui ad incastrare, durante un interrogatorio, il giovane ispettore. Giocando sul modo di dire le cose in siciliano e in italiano, La Mantìa e Spampinato, forniranno a Bovara un motivo per riflettere sulle reali parole rivelategli dalla vittima e imbastire la sua mossa del cavallo.

Bovara, uomo del Nord, è stato mandato in Sicilia dal procuratore Rebaudengo (Giancarlo Ratti). A differenza dell’ispettore, Rebaudengo conosce benissimo la realtà del potere mafioso e non crede esista modo per spezzarlo. Ma le denunce di Bovara fanno sì che anche lui ritrovi la determinazione e la giusta grinta.

Ad aiutare il procuratore e l’ispettore interviene prima il capitano Lostracco (Giuseppe Lanino). Il capitano, ufficiale dei carabinieri, è fedele alla sua divisa. Dopo le dencunce di Bovara, il capitano indaga sulla presenza di un mulino fatto interamente di legno. La scoperta rappresenta una prova per avvire un’inchiesta contro don Cocò Afflitto.

Dopo l’intervento del capitano Lostracco, entra in scena Pintacuda (Roberto Salemi). L’uomo è un incorruttibile giudice siciliano che comprende l’inganno ordito per mettere in trappola Bovara. Pintacuda e Rebaudengo tentano di reagire alle oppressioni di Don Cocò, consapevoli che una vittoria contro la mafia non è completa, ma comprende diversi sacrifici.

RECENSIONE:

L’introduzione di Camilleri

La pellicola, La Mossa del Cavallo, inizia con un’introduzione di Andrea Camilleri che ne svela la trama, ispirata da fatti realmente accaduti. Lo scrittore dichiara inoltre la sua emozione nel vedere prodotto il primo dei suoi romanzi storici:

“…Ho preso l’ispirazione da fatti realmente acaduti in Sicilia dalla seconda metà dell’800 alla fine del secolo stesso.
L’ispettore dei mulini viene mandato in Sicilia a fare il suo lavoro. (A quei tempi veniva spesso applicata la cosiddetta legge sul macinato. Una legge odiata da tutti. Consisteva in questo: i mulini, presso i quali veniva portato il grano da trasformare in farina, dovevano pagare una certa tassa sul rapporto tra grano e farina. Questa tassa, naturalmente faceva aumentare il prezzo del pane e all’epoca una pagnotta di pane era il solo cibo per un’intera famiglia. Quindi ogni volta che mettevano questa tassa succedevano rivolte autentiche con morti e feriti).

Dopo una contestualizzazione storica del periodo trattato, lo scrittore continua la sua introduzione:

Questo ispettore ai mulini nell’agrigentino, un giorno mentre torna a cavallo da un’ispezione, è testimone di un omicidio. L’ispettore non riesce a vedere in volto chi ha sparato. La vittima è un prete, conosciutissimo per il fatto di essere un donnaiolo sfrenato senza ritegno. L’ispettore tenta di soccorrerlo ma ormai il prete è morente e non può fare altro che sussurrargli il nome dell’assassino. L’ispettore corre presso i carabinieri, racconta dell’omicidio e del nome fattogli dalla vittima. Non sa che l’assassino è protetto dalla mafia. Nel tempo di ventiquattro ore, il testimone diventa l’assassino. L’ispettore, dunque, è imputato di avere, egli stesso, ucciso il prete. Se la caverà. Ma questo fatto naturalmente ha suscitato la mia attenzione.

Camilleri conclude il suo monologo:

Torno a dire, l’ho trasformato. L’ho trasportato dalle parti di Vigata e Montelusa. Siccome è il primo dei miei romanzi storici che viene fatto in televisione, vi assicuro che il battito del mio cuore è un po’accelerato. Non so come lo accoglierete. Mi auguro di tutto cuore che vi piacerà”.

Il confronto con Montalbano

Il binomio Camilleri-Montalbano è ormai conosciuto a livello mondiale. All’inizio de La Mossa del Cavallo, dunque, soggiunge una certa insoddisfazione nel non rivedere l’ambiente a cui Camilleri ha abituato il pubblico. Insoddisfazione che si ripropone quando, al posto del commissario, si presenta un ispettore genovese.

Bisogna, tuttavia, ammettere che il confronto tra i due personaggi si affievolisce durante il corso della pellicola. Questo avviene grazie al fatto che l’attenzione del lettore si sposta interamente sul personaggio dell’ispettore Giovanni Bovara. Il personaggio, infatti, subisce una repentina metamorfosi. Da convinto uomo del Nord, è affascinato dalla terra da cui proviene. La Sicilia lo cambia, raggiungendo il suo culmine quando capisce che l’unico modo per uscire dai guai non è solo parlare in siciliano, ma adottare il dialetto anche per pensare.

Il confronto con Montalbano riparte nel momento in cui Bovara prende coscienza delle sue radici e, soprattutto, del suo antagonista. L’intreccio della trama segue la stessa andatura. In entrambe le storie le città sono le medesime: Vigata, Montelusa e persino Genova. La missione stessa dell’ispettore passa in secondo piano, portando a galla un omicidio da risolvere. Ricordiamo che anche il personaggio stesso di Bovara era l’ex Giovane Montalbano nell’omonima serie. La mossa del cavallo si conclude con Bovara che nuota nel mare siciliano, così come fa Montalbano alla fine di ogni episodio. L’ultimo ma non meno importante elemento che accomuna Montalbano a Bovara è la lingua.

La lingua

Il vero punto chiave de La mossa del Cavallo è, probabilmente, il siciliano. Nel pieno di una partita a scacchi che vede come giocatori Bovara e Don Cocò, il siciliano rappresenta per l’ispettore la mossa del cavallo.

Inizialmente i dubbi del protagonista vengono espressi dalla voce di un io interiore che parla con un forte accento genovese. Ben presto, però, Giovanni Bovara si accorge che il siciliano non pretende solo uno sforzo linguistico ma anche un radicale cambiamento del modo di pensare. L’ispettore modifica la sua statica mentalità in un modus pensandi dinamico, improvvisamente 2+2 non fa più 4.

Il culmine della sua metamofosi avviene tra le sbarre di una cella, quando l’ispettore si rende conto che l’unica cosa che può tirarlo fuori dai guai è il suo dialetto. La lingua, infatti, è quell’elemento chiave che aiuta Bovara a scoprire completamente la Sicilia, a ritrovare le sue origini.

Come spiega lo stesso Camilleri:

“Parlare e capire la lingua vuol dire capire le radici comuni.”

La scacchiera

L’elemento della scacchiera è un interessante mezzo di intreccio della trama. L’andatura delle vicende si sussegue come una vera e propria partita, che inizia quando Bovara si rifiuta di cedere alle lusinghe di Don Cocò.
Come richiesto nel gioco degli scacchi, le mosse hanno un fine ben preciso e il coraggioso ispettore si dimostra un egregio scacchista, vincendo sul prepotente antagonista con la sua personale mossa del cavallo.

La teatralità

Nell’interpretazione de La mossa del Cavallo vi sono scene fortemente cariche dell’elemento teatrale. In principio la presentazione stessa dei personaggi di Padre Carnazza e Memè Moro che, con accentuata gestualità e servendosi delle giuste parole, riescono a descrivere pienamente il profilo del personaggio che rappresentano.

Ma forte teatralità è rappresentata anche dal Bovara stesso. Si fa riferimento alla scena girata mentre il protagonista è in galera. In preda a un delirio, realizzato con grandi prestazioni mimiche e vocali, Giovanni comprende il modo migliore per vincere contro Don Cocò.

Le somiglianze con Montalbano non disturbano lo spettatore durante la visione del film, La Mossa del Cavallo. Tuttavia, è comprensibile che certe analogie siano state inserite nella pellicola dato l’enorme successo mondiale riscosso dalla serie.

La Mossa del Cavallo è dunque un lungometraggio che si presenta come un western e si fa apprezzare per l’ambientazione siciliana, ma soprattutto per il carattere intrigante ed enigmatico del genere poliziesco.

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